Leadership futura. La riflessione di Gabriele Centazzo
Vi proponiamo uno stralcio dell'intervento di Gabriele Centazzo sul libro Leadership Futura promosso dall'Associazione Centro Studi Banca Europa e che verrà presentato al Teatro Dal Verme martedì 10 luglio alle ore 18 con interventi di Luca TELESE (ex Il Fatto Quotidiano) Luigi ZOJA (Psicanalista e Saggista) Edoardo IMPERIALE (D. G. Campania Innovazione) Mattia CALISE (Consigliere 5 Stelle) Laura PARIGI (Presidente e D. G. Parigi Group International) e Vittorio RASCHETTI (Docente) moderatore.
“Considero leader colui che persegue una linea guida con coerenza o, meglio ancora, colui che traccia una vision e riesce a entusiasmare i suoi collaboratori per rendere l'obiettivo condiviso. Ciò detto, penso che l'Italia avrebbe estremo bisogno di un vero leader con un sogno da condividere con tutti i cittadini.
Il nostro Paese è come una barca in mezzo al mare, piena di falle e in procinto di affondare. Abbiamo chiamato i tecnici, perché cerchino di tappare i buchi e salvare la nave dal naufragio, ma una nave ha bisogno anche di un comandante, che sappia manovrare il timone verso una direzione definita, fuor di metafora la linea guida. Purtroppo i tecnici sono troppo impegnati nel lavoro di chiusura delle falle e il timone è libero, senza nessuno al comando. Inoltre l'equipaggio non è composto da bravi marinai, ma da politici che costituiscono una ciurma litigiosa, riottosa e anarchica, sempre pronta a ordire trame sottocoperta, sempre pronta all'ammutinamento. All'interno di questo equipaggio, poi, ognuno ha un'idea diversa sulla direzione da intraprendere o, peggio ancora, nessuna idea.
Ma quale potrebbe essere la giusta direzione per l'Italia? Quale la sua visione? Quale il suo sogno? In lontananza scorgiamo alcune isole e dobbiamo scegliere dove approdare, per poter offrire possibilità economiche alle generazioni future. C'è l'isola delle materie prime: per noi non è una buona meta, perché l'Italia ne è priva. C'è l'isola della produzione di grandi numeri a basso prezzo, ma l'Italia ha il costo del lavoro dieci volte più alto che in altri Paesi e non può competere in questo campo. C'è l'isola della ricerca di base, ma qui certamente non riempiremmo le stive della nostra nave, perché per anni abbiamo investito pochissimo in questo settore. Eravamo tra i primi al mondo nella chimica, con il premio Nobel Giulio Natta, inventore di materie plastiche, ma i poli della chimica italiana sono ormai diventati veri e propri cimiteri arrugginiti. Eravamo leader dell'elettronica con Olivetti, che ha realizzato il primo computer al mondo, e per miopia politica abbiamo lasciato morire un'azienda modello a livello mondiale. Eravamo tra i primi nella fisica, ma quasi tutti gli scienziati sono emigrati in altri Paesi.
Verso quale isola, dunque, deve essere diretta la nave-Italia con una rotta ben definita da un grande leader carismatico, che sappia coinvolgere tutta la ciurma politica verso un'unica direzione? Rimane l'isola della creatività e della bellezza.
Per creatività non intendo quella che scaturisce da progetti pianificati e di lungo periodo come la ricerca di base, nella quale non abbiamo investito. Credo che il nostro Paese possa primeggiare in una forma di creatività spontanea e ingegnosa, fondata sull'intuito del piccolo imprenditore in grado di realizzare brevetti sulla base della capacità di elaborazione del pensiero e dell'intelligenza individuale. Questa forma di creatività naturale, però, si perde se non viene opportunamente stimolata. Per nutrirla è necessario rifondare il nostro modello di istruzione, inserendo sin dalla scuola primaria nuove materie che stimolino la capacità di elaborazione del pensiero. Il nostro cervello è come un ingranaggio che, se non viene utilizzato, si arrugginisce: possono essere inserite informazioni su informazioni, ma se non vengono elaborate non si ottiene vera conoscenza. Il problema di molti giovani è proprio questa mancanza di elaborazione del pensiero: arrivano miliardi di stimoli, ma non vengono elaborati e strutturati in un percorso di esperienza conoscitiva e creativa.
L'altro capitale che troviamo nell'isola dove dobbiamo dirigerci è la bellezza. Anche qui è fondamentale incidere nei programmi scolastici, inserendo fin dalla prima elementare la storia dell'arte, lo studio degli stili e utilizzando metodi efficaci per sensibilizzare i sensori della bellezza, in modo che non si atrofizzino fino all'incapacità di indignarci di fronte al suo sfregio. Creatività e percezione della bellezza: due abilità da valorizzare come capisaldi della formazione delle nuove generazioni italiane, come capitale da incrementare per i nostri figli e nipoti.
In Italia viviamo circondati da paesaggi, tesori artistici e architettonici di inestimabile valore. Perdere la capacità di riconoscere, comprendere, interpretare la bellezza, significa perdere la nostra memoria, la nostra identità. Nella nostra penisola, nasciamo provvisti di particolari antenne, i “sensori della bellezza”. Atrofizzare questi sensori naturali significa perdere la capacità di intercettare i segnali della sua presenza.
È indispensabile, per la nostra sopravvivenza, riuscire a crescere generazioni curiose, sensibili e in grado di assorbire e rielaborare la conoscenza in maniera creativa. Per esercitare il gusto e la cultura estetica è necessaria una vera e propria educazione alla bellezza: innanzitutto dobbiamo educare alla sensibilità percettiva della bellezza. E, partendo da quella estetica, possiamo fare un salto ulteriore, sino al livello dell'astrazione concettuale, al pensiero della bellezza, la cosiddetta “bellezza filosofica”, un ideale perennemente in fuga che richiede di essere sempre rincorso. Questa necessita di un forte desiderio, di una costante applicazione, di una volontà assoluta, di un lavoro appassionato, di perenne movimento: chi si ferma è perduto e si ritrova nella brutezza. È indispensabile, allora, educare i giovani alla bellezza insegnando loro ad interpretarla e a distinguerla dal nichilismo e dalla banalità dell'omologazione e della standardizzazione. Non è un compito facile, perché negli ultimi decenni abbiamo distrutto il capitale naturale fregandocene delle generazioni future, abbiamo depredato la ricchezza del lavoro attraverso le speculazioni finanziarie, abbiamo costruito industrie e aziende artigiane pensando solo a massimizzare i volumi senza porre attenzione alla qualità estetica dei luoghi di lavoro. Dentro questi ambienti, questi cubi di cemento che sono le fabbriche è possibile sviluppare la creatività e la bellezza?
Noi industriali abbiamo una precisa responsabilità, quella di valorizzare e sviluppare la creatività diffusa nelle aziende italiane, nelle quali i necessari obiettivi economici devono essere affiancati da una focalizzazione sulla cultura e sulla tecnica della bellezza. Se il sistema pubblico ha il dovere di portare creatività e bellezza all'interno delle scuole, gli industriali italiani hanno il compito di diffondere la cultura della bellezza all'interno delle fabbriche. Se vogliamo essere inventivi e creativi, se vogliamo realizzare “cose belle”, dobbiamo considerare questa cultura il valore più grande all'interno dell'azienda. Abbiamo perso tempo rincorrendo le chimere della finanza, alla ricerca del denaro facile: è un approccio che nel lungo periodo tende a distruggere la capacità industriale. Dobbiamo considerare, inoltre, il fatto che il sistema capitalista non può più reggere a lungo, perché è basato sull'aumento della produzione all'infinito: in uno spazio finito come la Terra, però, i consumi non possono crescere indefinitamente. Il consumo, inoltre, crea rifiuti, la bellezza non crea rifiuti.
L'Italia, per uscire da questa spirale distruttiva, deve rinnovare la propria identità artistica e culturale e ripristinare la sua secolare capacità artigianale e creativa. Possiamo risalire la china della crisi solamente investendo su questa capacità, ma serve una vera e propria rivoluzione, una nuova visione guidata da un leader in grado di aprire una prospettiva di speranza e di offrire nuovi ideali all'Italia del Ventunesimo secolo.
Il leader deve tracciare un segno riconoscibile, trasmettere una visione intelligibile, mobilitando l'impegno collettivo. Colui il quale vorrà guidare questo processo di cambiamento dovrà porsi all'incrocio tra la strada tecnica e quella umanistica: è nel punto esatto dell'incrocio tra le due vie che si può elaborare una visione creativa. E anche le scuole non dovranno più essere solo umanistiche o solo tecniche, ma tecnico-umanistiche, perché l'innovazione nasce dall'intreccio dei saperi, dalla contaminazione delle pratiche. Il grande pittore dispone di pensiero, filosofia, cultura, unita a un'ottima tecnica del disegno e del colore. Il leader, allora, dovrà saper utilizzare, in maniera corretta ed equilibrata, sia le competenze tecniche che quelle umanistiche. […]” (G. Centazzo)